Se una notte di primavera un viaggiatore
Ansiaansiaansiaansiaansiaansia. Scrivere e leggere questa parola tante volte di seguito provoca ansia, appunto. Pare che sia uno degli stati d’animo che aleggiano su un viaggiatore, la notte prima della sua partenza. Che si tratti di un viaggio di piacere o di lavoro, l’entusiasmo della conoscenza e dell’avventura strizza l’occhio all’inquietudine del nuovo. Ed ecco che nella mente frullano mix di domande da premio nobel per la stupidità: dormo già mangiato? Dormo già vestito? A questo punto dormo già sveglio.
Terminata la prima fase dei tormenti psico-fisici, gli occhi si accendono fissi sul soffitto grigiastro della camera, proprio sessanta secondi prima della sveglia. Siamo riusciti a negare la soddisfazione a quel gallo accuratamente scelto nella lista insulsa degli alarm clock del cellulare.
Si prepara la seconda fase dei tormenti psico-fisici. Chi sono? Dove mi trovo? Cosa farò? E se andrà male? E se poi te ne penti?
Come un bradipo alle olimpiadi, sfidi il tuo destino e percorri la via. Ere geologiche separano te e l’orario di partenza, ma la terza fase dei tormenti psico-fisici è già in agguato. Durante l’interminabile tragitto si giunge alla climax. Sudore freddo, aria gelida lungo la schiena coperta dalla maglia della salute, le mani afferrano con terrore la borsa. Passaporto? Toccato. Carta d’identità? Toccata. Carta di imbarco? E in slow motion ripercorri le azioni svolte prima di abbandonare il focolare domestico. Non hai più scuse. Puoi spegnere il cervello , accendere gli occhi e prepararti a gustare il mondo.
Non racconterò dell’Empire State Building che cambia colore; non farò cenno sulla quinta strada, sui tombini fumanti. Non dirò della Broadway, dei negozi multipiano, di Tiffany e delle foto scattate imitando, goffamente, la colazione più famosa del mondo. Non racconterò del ponte di Brooklyn e di come sia, forse, più bello il Manhattan Bridge, Chinatown, gli scoiattoli,il Central Park, Times Square, la crociera che ti traghetta tanto così a sfiorare la Statua della Libertà. Vorrei, invece, raccontare della strana sensazione di sentirsi a casa in un luogo estremamente diverso dal tuo habitat. Non mi ero mai accorta, prima di oltrepassare la barriera di sicurezza con annessa foto e prelievo delle impronte digitali, di quanta “america” ci sia nella mia vita, nella nostra. Ogni grattacielo, qualsiasi megastore, ogni strada particolare è stata assorbita ancor prima che i piedi congelati da un insolito freddo primaverile calpestassero quell’asfalto e percossero quelle strade numerate, divise tra EST E OVEST. Saranno le numerose e famose serie tv, propinate o cercate nella rete, sarà il cinema, la pubblicità, sarà che tutto è USAcentrico, ma quella sigla NYC è sinonimo di magia, incarnando ancor oggi il sogno, la speranza…che qualcosa funzioni. Con ciò, non intendo asserire che il sogno di tutti si sia avverato e che Obama ci salverà. La mia è una semplice riflessione da italiana media del sud. Così, se entri in uno Starbucks qualsiasi, dal più piccolo al più grande, non lasciarti prendere dallo sconforto alla visione della fila di newyorkesi pronti a impugnare il biberon di cartone colorato e correre via e di turisti infreddoliti pronti a riscaldarsi da bevande bollenti diverse, ma dallo stesso sapore super dolciastro. Ecco che un’ape operaia dotata di microfono alla Ambra Angiolini dei bei tempi, volerà dritta sul suo bel fiore, dirigendosi verso l’ultimo della fila, imbronciato dalla pseudo attesa e oplà, con aria efficiente, ti chiederà cosa desideri mangiare e bere, perché di lì a poco avresti ricevuto il tuo ordine, con tanto di biberon autografato. Lo sconcerto cede il posto alla riflessione e ti illudi di supporre che cotanta efficienza sia prerogativa di famosissime catene. Povera me, italiana media del sud che si ostina a sopportare file di dubbia regolarità, durante le giornate afose, per godere di un cono gelato.
Noi italiani, si sa, siamo un popolo strano. Per noi l’erba del vicino è sempre verde. Siamo in prima fila per le azioni di demolizione quando queste non sono necessarie e convinti campanilisti quando faremmo meglio ad aprirci al confronto con altre culture e idee. Ed è per questo che fa male accorgersi di quanta Italia ci sia fuori dallo Stato, fuori dai confini nazionali segnati sulla mappa.
Certo, non nego di aver provato un pizzico di vanto nell’osservare Eataly e la folla gremita di stranieri e newyorkesi che acquistavano e mangiavano i tortellini, il gelato che non si chiama ice cream ma all’italiana maniera, il salume di questa o quella regione, e tanto tanto altro. Non nego di aver camminato tre metri sopra il marciapiede, nell’accorgermi che un locale su tre vende prodotti italiani laddove voglia conferire ad esso una percentuale di qualità. Da Lower Manhattan a Central Park e oltre, la città che non dorme mai parla italiano e la sua lingua è quella che noi cerchiamo di dimenticare, quella dell’arte, della moda, dell’agricoltura, della qualità culinaria, pensando che l’essenza artigiana di cui siamo fatti non sia cosa per cui vantarsi.
Voglio raccontare dell’HIGH LINE, la linea sopraelevata degli anni ’30, che collegava i magazzini lungo il West Side. Alla fine del suo mandato, il sindaco Giuliani firmò un documento in cui si ordinava la demolizione dell’intera High Line provocando lo sdegno delle associazioni locali che ne contestarono la decisione. Nel 1999 nacquero gli Amici della High Line , residenti di quartiere, imprese, professionisti del design, organizzazioni civiche, con l’intento di riutilizzare i restanti chilometri di tratto ferroviario. Questa organizzazione ha svolto attivamente un’azione per la creazione di uno spazio pubblico ecologico, per la conversione e il recupero urbano di un’infrastruttura ormai morta.
Ho percorso quei restanti kilometri, di pomeriggio, quando il sole stava per lasciare il posto alla luna. Mi sono riposata sulle panchine di legno dal design ineccepibile e ho osservato turisti e non mentre, passeggiando, buttavano l’occhio sulla natura che nasce tra vecchi binari ferroviari. Miracolo? Non credo.
E’ solo l’emblema di un’idea che diventa azione, simbolo di comunità che crea per sé e per gli altri, nella patria dell’individualismo e delle costruzioni verticali. Al di sotto dell’High line, dimora un altro capolavoro d’architettura e design, di riqualificazione e valorizzazione. Si tratta del Chelsea Market, un mercato all’interno di una vecchia fabbrica di biscotti, un crogiolo di culture e stili, dove l’Italia non manca, anzi.
Puoi gustare un piatto di pasta di Giovanni Rana, un cono di gelato italiano, acquistare spezie, prodotti bio italiani, tra un piatto di pesce freschissimo e muffin enormi.
Se l’essenza del viaggio è scoprire posti nuovi, liberare la mente e aprirsi al confronto, il Chelsea Market e l’High line rappresentano la massima espressione di quello che un viaggiatore si aspetta di incontrare lungo la propria strada, insolito e unico, esteticamente bello e ricco di diversità. Perché in fondo, la bellezza è la somma delle particolarità e forse, la magia che cattura gli esploratori che giungono a Manhattan è l’abbraccio del tutto che è costituito da piccolissime parti di un mondo grandissimo. I miei occhi hanno avuto l’onore di vedere più colori della pelle, i miei orecchi hanno potuto sentire parlare tante lingue, la mia bocca ha imparato a non gustare solo pasta e pizza, il mio naso si è inebriato di profumi diversi, che cambiavano da isolati a isolati. L’ideale e totale integrazione è ancora un miraggio, ma molti passi in avanti sono stati fatti.
La grande bellezza di un viaggio è anche la consapevolezza che prima o poi si torna a casa. La bellezza di un viaggio è partire colmo di radici, quelle radici che ti fanno sentire a casa, quelle radici che ti spingono ad andare sempre oltre i confini per poi tornare. La bellezza del viaggio è sentirsi a casa con l’abbraccio della famiglia che attende all’aeroporto, i racconti da scrivere e da ripetere mille e una volta a chi è restato. La grande bellezza è andare e tornare e ancora andare, perché nulla è più inutile del restare fermi, con la mente e con i piedi. L’ansia non c’è più, l’adrenalina si è abbassata e gli occhi sono assonnati, ma vivi, vivi come non mai.