Quando la morte bussa per mano di qualcuno
“E ora mi alzo dal suo corpo esangue.
Estraggo il pugnale dallo stomaco della vittima, stavolta non la guardo neppure negli occhi mentre si spegne, non ne ho più bisogno. Sono arrivato alla fine del viaggio.
Io so perchè lo faccio.
Perchè posso.
Sono Dio”.
[Monologo di un serial killer]
Tra i vari comportamenti criminali, l’omicidio, è senza dubbio quello che genera maggiore allarme sociale e innesca un profondo senso di insicurezza nel cittadino. L’omicidio è storicamente un campo di studio affascinante e al tempo stesso inquietante. Psicologi, psichiatri, criminologi, giuristi e sociologi si adoperano nello studio fenomenologico e causale della condotta omicida. Purtroppo la grossa difficoltà riscontrata negli studi sugli omicidi e nella loro classificazione, stà proprio nella grande varietà di situazioni in cui questo tipo di crimine può essere perpetrato.
Pertanto, essendo comportamenti omicidiari assai diversi tra loro, una serie di problematiche si presentano all’esperto del fenomeno in questione: la motivazione o meno dell’atto criminoso, la diagnosi di una sua eventuale infermità di mente, la valutazione di una sua responsabilità ed imputabilità penale, e il suo trattamento. Esistono diverse tipologie di omicidio. Di massima la loro classificazione è rappresentata dal conteggio del numero delle vittime per singolo atto omicidiario. Si parla, infatti, di omicidio singolo e omicidio multiplo. Nel primo caso, l’autore del delitto effettua l’omicidio, in modo casuale o premeditato, di una singola vittima. Mentre nel caso in cui l’assassino esegue un altro omicidio a distanza di tempo, per poterlo considerare ancora come omicidio singolo, non devono essere presenti stesse caratteristiche e nessi di tipo psicologici, di movente, con la prima uccisione.
Nell’ambito delle indagini di numerosi delitti spesso si sente parlare del modus operandi nelle commissioni dei crimini e di serialità negli omicidi.
Il modus operandi indica un modo di agire, un insieme di azioni che servono per compiere un determinato crimine. Analizzare il modus operandi è indispensabile per vari motivi:
1) permette di collegare i crimini; 2) consente di identificare un sospetto confrontando un modus operandi di un criminale noto con il modus operandi connesso ad un caso irrisolto; 3) cancellare una persona dalla lista dei sospettati.
Il modus operandi non è stabile nel tempo,come lo è invece “la signature” ovvero la firma che possiamo trovare presente nei crimini seriali. Nel modus operandi il criminale può acquisire esperienza traendo massimo beneficio dal reato, minimizzando i rischi di essere identificato e quindi catturato. Il modus operandi fornisce, sicuramente, delle informazioni considerevoli circa il criminale, come le sue abilità, le sue conoscenze criminali o meno, l’eventuale relazione con la vittima e il grado di familiarità con la scena del crimine.
Per quanto riguarda, invece, gli omicidi cosiddetti seriali (l’uccisione consecutiva di più vittime), è stato considerato fino agli anni ’50 un omicidio di massa. Solo dopo quel periodo gli studiosi di criminologia lo hanno differenziato e studiato più attentamente. Nel 1988 il “National Institute of Justice” statunitense propose una prima definizione di omicidio seriale, vale a dire una serie di due o più omicidi, commessi come eventi separati, ad opera di un singolo autore, con le motivazioni ricercate nelle dinamiche psicologiche dell’autore del crimine. Nel 1992 il Crime Classification Manual di Douglas, Burgess e Ressler fornisce una seconda definizione del serial murder: tre o più eventi omicidiari, commessi in luoghi differenti, separati da un intervallo di “raffreddamento” emozionale dell’omicida ( cooling time off ).
Numerosi sono anche i crimini violenti, specie se maturati in ambiente intrafamiliare o domestico. Delitti che vengono solitamente considerati opera di un soggetto che ha agito in preda ad un raptus (definiti anche come reati privi di movente).
In realtà molti degli omicidi che non comportano evidenti vantaggi utilitaristici per l’assassino (privi di movente), portano quasi sempre dei vantaggi per l’autore, i quali vanno analizzati all’interno di dinamiche psicologiche, molto profonde e talvolta segnate dalla psicopatologia. In questi casi è più corretto parlare di motivazione omicidiaria anziché di movente poiché la spinta endogena, il guadagno ottenibile, non è di natura materiale, bensì di tipo psicologico e quindi espressivo.
Anche il concetto di raptus risulta in quest’ottica, a mio avviso, poco adatto alla spiegazione degli omicidi, sia sotto l’aspetto criminologico che sotto quello medico-psichiatrico.
La malattia mentale, come ogni malattia, ha infatti un suo corso, ha suoi sintomi, i suoi segnali, le sue crisi acute.
Ipotizzare l’esistenza di un soggetto assolutamente sano, che impazzisce improvvisamente commettendo un orribile delitto in preda ad un non meglio precisato discontrollo episodico della coscienza e che subito dopo ritorna allo stato antecedente di assoluta normalità e razionalità, significa ipotizzare qualcosa che, pur se di indubbia praticità processuale (specie difensiva), appare stridente con le conoscenze medico-psichiatriche correnti. Credo che in parte si debba considerare un termine abusato, in parte, invece, credo si debba trovare una definizione più completa. Ovvero, dietro la parola raptus e dietro ciò che in realtà lo determina si nascondono vari processi psicologici. In pratica, dietro l’autore di un’azione violenta che noi definiamo raptus, esiste sempre un percorso che fa l’autore stesso. Il raptus è senza meno la risposta immediata ed incoercibile ad un pensiero intrusivo, ovvero quel pensiero che irrompe tra altri pensieri ed immagini in atto in quel momento, e getta scompiglio nell’organizzazione mentale del soggetto, altera la percezione della realtà e non può essere controllato.
È facile pensare che l’autore di un omicidio efferato sia un pazzo.
Considerare chi compie un crimine orrendo come un pazzo, diverso da tutti noi, consente alla collettività di prendere le distanze da comportamenti inaccettabili sul piano sociale, controllando ‘’fantasmi’’ e ansie latenti. Cosa ancor più importante è che la ricerca criminologica, ha dimostrato che il malato psichico non compie più crimini del soggetto cosìddetto ‘’normale’’ e che la maggior parte dei reati commessi da pazienti psichiatrici sono di scarsa gravità, come atti osceni, danneggiamenti di oggetti.
“Chi non apprezza il dono della vita, non merita di vivere.
La consapevolezza della morte cambia tutto: se io ti dicessi qual è esattamente il giorno e l’ora della tua morte, la tua visione della vita cambierebbe completamente”.
[ l’enigmista].