La Progettazione Partecipata
La partecipazione è questione complessa. Ma io continuo a credere che per l’architettura sia una delle vie d’uscita. L’architettura è infatti un modo di comunicazione che tutti, potenzialmente, potrebbero usare; che un tempo tutti usavano. Nella civiltà contadina la pratica dell’edificare era affidata ai capimastri, o semplicemente ai muratori, però l’idea del come organizzare e dare forma allo spazio era patrimonio comune: chi si faceva costruire la casa sapeva bene quali erano i suoi bisogni e aveva idee precise su come lo spazio doveva essere organizzato per corrispondere alle sue esigenze pratiche, e di come doveva essere configurato per diventare una sua propria rappresentazione. Molti partecipavano a una cultura diffusa dell’abitare.
La conoscenza architettonica era condivisa e anche chi non era del mestiere possedeva capacità di confrontarsi con i manufatti murari, di osservare le tessiture, i materiali e le tecniche, di riconoscerne la funzione, di apprezzare le differenze, di stimare le quantità, la bellezza. Poi la conoscenza è scomparsa e l’architettura è diventata dominio esclusivo dell’architetto: artista, professionista, tecnico specializzato, secondo la cultura e i poteri delle varie epoche dal Rinascimento all’Illuminismo, all’Industrializzazione. Questo processo è ancora in corso e la figura dell’architetto, nell’epoca postindustriale, tende a essere ancora più esclusiva, sotto l’apparenza del tendere a includere, che in realtà è un tendere a cooptare.
Tutto questo produce disastro sociale e politico, perché divide gli esperti, quelli che “sanno” e “sanno fare” da quelli che non sanno neppure “perché” si fa, e che in questo stato di estraniamento arrivano ad avere perfino difficoltà a interpretare ed esprimere i loro bisogni.
L’istituzionalità della scissione tra esperti e ignari è accentuata dalla pubblicistica (riviste, giornali, convegni, ecc. di architettura) e dall’idolatria della tecnologia alta (high-tech). Il mio amico e grande architetto Aldo van Eyck diceva di essere alla ricerca di una tecnologia “bassa” (low tech), e cioè di una tecnologia capace di risolvere le più sofisticate esigenze dell’architettura contemporanea, ma anche capace di sorpassare la concezione lineare e semplicistica di “processo” alla quale ancora ci si riferisce e che porta a considerare che una struttura metallica complessa sia di per sé più significativa di una struttura in mattoni o in legno; che stabilisce gerarchie e attribuisce valori in un mare di nonsensi, dove si confonde l’impalcatura retorica col vero significato che vorrebbe sorreggere.
Gli effetti si vedono nel linguaggio, che dal periodo postmoderno in poi tende a essere collage di citazioni, apparentemente colte e sofisticate ma il più delle volte incomprensibili a chi non è addetto al lavoro di manipolazione. Diventa cosi difficile ogni forma di socializzazione dell’architettura, si impedisce la partecipazione e si riduce l’architettura ad auto contemplazione, isolamento nella autonomia; e si produce un linguaggio di casta che esclude chi non è nel gioco. Si smorza l’ansia di scoperta quando invece è grande il bisogno di tensione, di energia capace di saltare la citazione per andare “dritti alla cosa”: come aveva saputo fare il Movimento Razionalista del periodo eroico.
Per uscire dalla sterile situazione di isolamento in cui si trova l’architettura, è importante che la gente partecipi ai processi di trasformazione della città e dei territori, ma è anche importante che la cultura architettonica si interroghi su come rendere l’architettura intrinsecamente partecipabile; o, in altre parole, come cambiare le concezioni, i metodi e gli strumenti dell’architettura perché diventi limpida, comprensibile, assimilabile: e cioè flessibile, adattabile, significante in ogni sfaccettatura.
Dunque io credo che non serve una teoria della partecipazione mentre occorre l’energia creativa necessaria a uscire dalle viscosità dell’autonomia e a confrontarsi con gli interlocutori reali che si vorrebbero indurre a partecipare. In Italia l’opposizione alla partecipazione è stata indubbiamente dura, ma questo è stato anche facilitato dalle posizioni deboli e dogmatiche di quelli che proponevano la partecipazione come processo meccanico e automatico secondo il quale basta andare dalla gente, chiederle quali sono i suoi bisogni e poi trascrivere le risposte in progetti grigi il più possibile. La partecipazione è molto più di così: si chiede, si dialoga, ma si “legge” anche quello che la vita quotidiana e il tempo hanno trascritto nello spazio fisico della città e del territorio, si “progetta in modo tentativo” per svelare le situazioni e aprire nuove vie alla loro trasformazione. Ogni vera storia di partecipazione è di un processo di grande impegno e fatica, sempre diverso e il più delle volte lungo ed eventualmente senza fine. La partecipazione impone di superare diffidenze reciproche, riconoscere conflitti e posizioni antagoniste.
È difficile che il dialogo si apra subito a una fluente ed efficace comunicazione. Ma quando si raggiungono fiducia e confidenza, allora il processo diventa vigoroso, spinge all’innovazione, innesca uno scambio d’idee che viene continuamente alimentato dall’interazione dei modi diversi di percepire le questioni portate nel dibattito dai vari interlocutori. A questo punto l’ambiente si scalda e “accade” la partecipazione, che è un evento non solo intellettuale o mentale, ma anche fisico, alimentato da calore umano. Man mano che lo scambio si intensifica – e si assottiglia, si acuisce, si stratifica – l’interazione diventa sempre più stimolante e i suoi esiti non sono più prevedibili, perché dipendono dagli interlocutori,che sono sempre diversi e perciò rendono unico il processo-progetto cui partecipano.
Per questo non esistono ricette per la partecipazione. Se cambiano i partecipanti e le ragioni per cui si sono incontrati, cambia la partecipazione: bisogna inventarla ed esperirla ogni volta da capo.
Le proposte architettoniche che un bravo architetto riesce a dare nel processo partecipativo sono senza dubbio personali e, questo non è di per sé un limite; al contrario è una risorsa. La verifica della qualità dei risultati avviene quando gli altri, i partecipanti, si riconoscono in quello che l’architetto propone.
Accade come accadeva per tutti – e anche ora per gran parte dei giovani – con la musica. Tutti suonavano, ma qualcuno era capace di produrre sonorità particolari; e quelle sonorità a un certo punto venivano riconosciute e diventavano patrimonio diffuso. Oggi la capacità di condividere ai livelli più alti è molto attenuata, ma io credo che riprenderà. Non ho mai predetto e non credo che si possa predire il futuro, ma sono certo che l’architettura non morirà. Lo sforzo di organizzare e dare forma allo spazio fisico continuerà a essere esigenza impellente e passione umana. Ma per non morire l’architettura dovrà coinvolgere chi direttamente o indirettamente la utilizza. Non sarà facile, perché la società è sempre più intricata: infinite sono diventate le classi, le categorie, i gruppi sociali. Ma questa è la bellezza del periodo che stiamo vivendo.