How’s it going to end?
“Siamo veramente stanchi di vedere attori che ci danno false emozioni, esauriti da spettacoli pirotecnici ad effetti speciali; anche se il mondo in cui si muove è in effetti per certi aspetti fittizio, simulato, non troverete nulla in Truman che non sia vero; non c’è copione, non esistono gobbi. Non sarà sempre Shakespeare ma è autentico, è la sua vita”. Ecco a voi signore e signori il Truman Show.
Attraverso un film si potrebbe dire quasi atipico il regista Peter Weir fa passare sullo schermo una trama ricca di stimoli e spunti per riflettere su un finale di secolo decisamente complesso e ambiguo non solo per quanto riguarda il ruolo dei media nella società ma anche per ciò che concerne l’esistenza stessa dell’individuo in un mondo multimediale e il suo rapporto con nuovi scenari solo poco tempo prima impensabili.
La pellicola, immaginando una situazione paradossale portata all’estremo (forse neanche troppo considerando gli attuali sviluppi della “moda” di raccontare la vita in televisione attraverso il reality) narra le vicende di un uomo apparentemente normale, Truman Burbank, il quale ignora che la sua intera vita è e fa parte di uno spettacolo televisivo, il “The Truman Show” appunto. Un’intera esistenza dunque ripresa in diretta ventiquattro ore su ventiquattro fin dalla nascita. Uno spettacolo dunque, solo uno spettacolo.
Nonostante possa sembrare una commedia brillante ed originale in realtà è un film drammatico che si presta alla discussione di numerosi e complessi temi culturali. Il primo quello del potere e del controllo sociale esercitato dai media sull’uomo e la sua vita, un potere che da più parti è stato visto come manipolatorio e schiacciante. Il regista elabora dunque sia le paure orwelliane che la ambizioni di onnipotenza di chi è al capo del controllo.
Il discorso sul controllo sociale dei media non può non farci richiamare Orwell e il suo romanzo più famoso Grande Fratello che come Christof, il creatore dell’universo di Truman, è un occhio onnipresente che vuole controllare le vite altrui per saziare la propria sete di potere.
Il film prende vita nel 1998, un anno che segna sul finire del secolo la nascita di quella moda che continua inesorabile tutt’oggi di raccontare la vita in televisione attraverso i reality show e che tiene incessantemente incollati al video milioni di spettatori. Una moda che segna progressivamente la crescente invadenza del mezzo nella sfera degli individui poiché ormai sempre più a fare ascolti sono le vicende private della gente comune. La parte più privata della vita viene sottoposta al mare della platea televisiva.
Va fatta una riflessione su quello che sembrerebbe essere l’ultimo male della società contemporanea e che in qualche modo trae spunto dal film; nell’era delle intercettazioni telefoniche, degli occhi indiscreti dei satelliti che tutto vedono, delle telecamere disseminate ovunque a catturare frammenti della vita di ognuno di noi, la nuova paura dell’uomo “post-moderno” è quella di essere spiato. On the air, unaware verrebbe da dire. Non è un caso quindi se questa nuova sindrome viene definita “sindrome Truman” da tutti quegli specialisti che in questa nuova forma di disordine riflettono la grande influenza che la cultura può avere sull’uomo come se fosse appunto un certo tipo di substrato socio-culturale a plasmare simili paranoie.
Il finale, in ogni caso, è un riscatto dell’individuo che per quanto lo si possa ingabbiare non potrà essere imprigionato ad oltranza perché troverà sempre la forza dentro di sé per reagire e prendere in mano il timone della propria barca, superare “a tempesta della finzione” e raggiungere il porto sicuro della vita reale concedendosi ironicamente il lusso di salutare sempre e ancora con un “buon pomeriggio, buonasera e buonanotte” che hanno però il sapore della realtà.