Bambino soldato. Questo sconosciuto!
Ci sono fatti, eventi, rumors, completamente ignorati sino a quando qualche regista o attore belloccio e famoso decidono di sceneggiarli e portarli alla luce. Nel bene e nel male, ci sono fatti che naufrano nell’immenso mare e qualche volta ricevono un’ancora. Ci sono storie che non fanno notizia, perchè troppo umane, troppo cattive, spesso volutamente tralasciate dai lettori, perchè fanno male. Ci sono storie come quella di Papani Kamara, ex bambino soldato africano de Il Ruf (Revolutionary United Front), l’esercito ribelle che dal 1990 al 2002 ha combattuto una guerra civile nel tentativo di prendere il potere in Sierra Leone, uno dei gruppi armati più cruenti della storia. Papani ha 24 anni. Soffre di depressione e sindrome post traumatica grave. E’ fuggito dalla Sierra Leone, sbarcato a Lampedusa, ora vive in estema povertà alla periferia di Roma.
«Tutti hanno paura di me. Pensano che io possa cambiare all’improvviso, tornare a fare qualcosa di male. Ma non è così. Vorrei dirlo al mondo: era per colpa della droga se ho fatto quelle cose. Quando me la iniettavano non capivo più niente, non riconoscevo più nessuno, neppure i miei genitori». Il suo sogno più grande è trovare un piccolo lavoro, impapare un mestiere e creare un nucleo famigliare. «Per me le cose peggiorano di giorno in giorno. Non lavoro, non studio. Per poter iscrivermi a un corso di italiano mi hanno chiesto 100 euro». Dalle colonne de La Stampa.it , si legge che il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari sta per scadere. Non ha soldi per rinnovarlo. Il Ministero dell’Interno non ha ritenuto di concedergli lo status di rifugiato politico: «Non si rinvengono ipotesi di rischio di danno grave in caso di rimpatrio». «Purtroppo non ho trovato persone amichevoli qui in Italia, mi dispiace per quello che sto dicendo. Ho cercato amici, qualcuno con cui parlare, ma non ho trovato nessuno». In verità tre donne hanno cercato di prendersi cura di lui. Una psicologa, un’avvocatessa e una maestra di italiano che si chiama Cecilia. Quest’ultima ha scritto una lettera che Papani Kamara tiene sempre in tasca come un passaporto: «Ti conosco da poco ma sento che sei un bravo ragazzo…».
Il bilancio fornito dalle Organizzazioni Umanitarie internazionali parla di oltre 120 mila bambini soldato africani sparsi per le zone dell’Angola, Burundi, Congo, Eritrea, Etiopia, Liberia, Ruanda, Sudan, Somalia.
Nel mondo circa trecentomila minori sono impegnati direttamente nelle guerre in 41 paesi. L’arruolamento dei piccoli è la logica conseguenza di una serie di conflitti interminabili che insanguinano i paesi in via di sviluppo, in quanto, l’elevata mortalità dei combattenti di guerre infinite richiede sempre nuovi soldati.
Minori abbandonati , privi dei genitori, affamati, arruolati a forza entrano a far parte delle diverse milizie: è un modo per sopravvivere in un mondo devastato.
Usati dapprima come messaggeri, spie, osservatori, vivandieri o schiave sessuali (le bambine), vengono poi utilizzati come combattenti e solitamente vi sono intere squadre costituite da minori in armi.
È proprio la lunga durata dei conflitti odierni che rende arduo scovare continuamente nuove leve da arruolare tra gli adulti, mentre, specialmente nei Paesi più poveri, i bambini non mancano e quella che viene considerata una ricchezza per la famiglia estesa, tipica di certi contesti e culture, in primis quella africana, diventa serbatoio ricchissimo di risorse per i signori della guerra.
In uno spirito completamente provocatorio, la sociologa camerunese Axelle Kabou ha scritto un testo dal titolo del tutto emblematico: E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?
Tema centrale di detto scritto risiede nella tesi secondo cui non sarebbero stati gli antichi colonizzatori e il sistema politico economico internazionale a mettere in ginocchio l’Africa, ma i leader africani che, a loro volta, colpevolizzano il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, perché non erogano i prestiti di cui i loro governi hanno bisogno.
Le iniezioni massicce di capitali non possono farci niente. Occorrerebbe prima di tutto disintossicare la mentalità, rimettere gli orologi a posto e soprattutto porre gli individui di fronte alle loro ineluttabili responsabilità.
Tante guerre africane, mascherate dallo scontro interetnico, velano gli interessi di politici corrotti al soldo di poteri occulti legati all’alta finanza mondiale. Il fenomeno dei baby soldiers, lo si voglia o no, è direttamente proporzionale al sottosviluppo .
Liberia, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Congo-Brazavile, Guinea- Conacry sono solo alcuni dei Paesi dell’Africa centrale e occidentale in cui i bambini sono o sono stati recentemente arruolati come soldati o come affiliati a eserciti in guerra tanto nazionali, quanto ribelli.
Un bambino soldato è un qualsiasi bambino che è parte di una forza armata o di un gruppo armato a qualsiasi titolo e tutti coloro che accompagnano questi gruppi, ad eccezione di coloro che lo fanno esclusivamente in qualità di familiari. Non si fa riferimento solo a chi ha imbracciato un’arma.
Un bambino soldato può essere un combattente, un cuoco, un trasportatore, un messaggero, o un qualsiasi bambino o bambina reclutati per fini sessuali o forzati al matrimonio.
Le tensioni interetniche sono state manipolate a fini politici nelle zone di interesse strategico militare o politico, quali ad esempio il Congo ed in particolare le province del Katanga e del Kivu settentrionale. Contro qualsiasi normativa emanata, l’arruolamento forzato è fondato sulla minaccia o sull’uso della forza ai fini della partecipazione del minore al gruppo armato. Si tratta di un vero e proprio prelevamento con la violenza, fisica e psicologica , dei bambini dalle loro case , dai loro villaggi , per costringerli a far parte dell’esercito o del gruppo armato. Condizioni di indigenza motivano adolescenti e bambini all’arruolamento.Non mancano casi di bambine che sentono di non avere alternative se non di rimanere con un gruppo armato, poiché se provassero a scappare verrebbero torturate e uccise. Di solito sono costrette a sposare i soldati e ad accettare il fatto senza rifiuti, pena la morte.
Si rischia di essere sgozzate come galline, non avendo neppure il diritto ad una sepoltura.
Molti bambini incontrati dai ricercatori di Amnesty hanno ammesso, rassegnati che, nonostante gli orrori della vita militare potrebbero essere costretti a rientrare nei gruppi armati, perché è l’unico modo per sopravvivere. I bambini soldato avevano tra i tredici e i sedici anni, ma non mancavano i minori di 7 e 8.
Gli AK-47 sarebbero diventati la loro proprietà privata, il loro bastone.
Venivano radunati sul campo di esercitazione dove, al momento dell’arruolamento, ricevevano scarpe nuove, bermuda militari e magliette di tutti i colori. Indossate le tenute, venivano disposti tutti in fila a gambe aperte e con le braccia lungo i fianchi. I bambini soldato in procinto di addestramento venivano portati in una piantagione di banane perché si allenassero a infilzare i banani con le baionette, immaginando che l’albero fosse il nemico, il ribelle colpevole della morte dei propri genitori, insomma, il responsabile di tutto ciò che fosse successo. Alla fine delle esercitazioni di tiro erano educati a smontare e oliare i fucili.
Tutti i ragazzi indossavano bermuda militari, magliette e fasce verdi, in modo da identificarsi e identificare i loro “nemici”. Ad essere distribuiti non erano soltanto i vestiti. I soldati ricevevano a testa, assieme a un bicchiere d’acqua, delle pasticche di colore bianco, con la giustificazione che aumentassero le energie. I soldati più grandi del gruppo trasportavano le scatole di munizioni, lunghe quanto due mattoni di cemento, altri i mitragliatori e le granate. Veniva detto loro di trasportare sempre munizioni al posto del cibo, in quanto con le prime si poteva trovare da mangiare, con una riserva di cibo si rischiava di non arrivare alla sera.
Ogni volta che ci si fermava a cambiare il caricatore, sfilavano davanti agli occhi tutti i massacri della guerra. Anche i cadaveri venivano saccheggiati, perché erano in possesso di munizioni e armi. Non si aveva più paura dei corpi senza vita, anzi, venivano disprezzati, presi in giro e a calci.
Si facevano i turni ai posti di guardia, si fumava marijuana, si sniffava brown brown , cocaina tagliata con la polvere da sparo, sempre disponibile sul tavolo. Le pasticche davano tantissima energia. Ma gli effetti indesiderati erano sudore, tremore e appannamento della vista, per parecchi minuti anche assenza di udito. Un mix di ondata di energia e grande torpore.
Di notte erano soliti guardare i film di Rambo, Commando, grazie ad un generatore elettrico. Se erano a corto di cibo, droga, munizioni e benzina per guardare i film di guerra, razziavano gli accampamenti dei ribelli nelle città e nei villaggi, attaccando anche i civili e qualsiasi cosa potessero trovare.
A volte si ordinava di andare a combattere a metà della visione di un film. Dopo aver ucciso tantissime persone, al ritorno , si riprendeva a vederlo come se si fosse trattato di una pausa pubblicitaria. ( Tratto da Beha I.,Memorie di un soldato bambino, 2007)
C’è un detto cinese che dice “Nessun suono può essere emesso se solo una mano applaude”. In un momento di estrema crisi politica e di identità della politica e dei politici, c’è estremo bisogno anche di leggere di queste storie, di guardare un Papani seduto in mezzo alla folla, di guardarlo e non scartarlo come fosse una caramella andata a male.
Eppure restiamo immobili, terrorizzati da quello che potremmo fare, da quello che siamo diventati e da un odio reciproco che ci induce a rubare il posto di lavoro anche a nostra madre. Siamo in grado di far pagare l’iscrizione ad un corso di italiano e trascorrere ore davanti alla televisione. Ma quello che dobbiamo chiederci è :
Siamo davvero diventati il posto dell’inimicizia e della poca accoglienza?