A testa Alta
Ci sono storie sempre troppo poco conosciute. Storie di vita e di morte, storie di vicini di casa, persone comuni che incontreresti ovunque, nella vita di ogni giorno. La storia di ognuno di noi ha un inizio. Il racconto è un mezzo, faro di testimonianza, potente vento che spazza via la polvere, l’assenza, il non ricordo, l’indifferenza, l’acuta voglia di non conoscere per non sentirsi in colpa. Perché la conoscenza richiede coraggio, mettersi in discussione, sentire come propria la storia altrui, alzando lo sguardo.
A testa alta, Federico Del Prete: una storia di resistenza alla camorra, uscito, per la casa editrice Di Girolamo di Trapani, è un libro che scuote, che permette di lottare con la forza dell’oblio interiore, cercando di sgretolare i paraocchi personali.
Paolo Miggiano, autore del libro, racconta la storia di Federico Del Prete, commerciante ambulante ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 18 febbraio 2002. Per difendere la categoria dei venditori dei mercati, vessati e taglieggiati dalla camorra, Del Prete aveva fondato il Sindacato Nazionale Autonomo Ambulanti. Nonostante minacce e intimidazioni di ogni genere egli aveva denunciato estorsori e criminali e alla vigilia di un processo contro il feroce clan La Torre, il giorno prima della sua deposizione in tribunale, venne ammazzato. Del Prete fu un cittadino esemplare e coraggioso al quale lo Stato non seppe garantire protezione adeguata se non concedergli dopo morto la medaglia d’oro al valore civile. Questo libro, in una Italia di pavidi, di faccendieri, di corrotti e di collusi, restituisce per la prima volta la memoria di un uomo che seppe resistere e presenta l’azione di quanti, dopo la sua morte, si impegnarono efficacemente nella ricerca di esecutori e mandanti. Con una prefazione del magistrato Raffaele Cantone e una testimonianza di Gennaro Del Prete, figlio di Federico.
Nel 2002, il ventenne Roberto Saviano, molto poco noto al pubblico, soleva pubblicare sul sito “nazioneindiana” alcuni articoli. Tra questi, ritroviamo un articolo/lettera che l’autore di Gomorra scrisse a Federico Del Prete. Quando si è dinnanzi alla morte, quando questa è causata dalle mafie, quando la forza delle parole del ricordo è molto più potente di qualsiasi fiore lasciato su una tomba, allora sembra giusto lasciar parlare “chi ne sa” davvero, oltre la retorica.
Così scriveva Saviano:
Sono venuto al camposanto. Qui davanti alla tua tomba. Ti hanno messo vicino a un vecchio maresciallo morto a novant’anni ed una simpatica, almeno in foto, signora ottantenne. E tu sfiguri, morto a neanche quarant’anni. Non capisco bene il motivo per cui sono venuto qui. Lo sai, non mi piacciono i cimiteri meridionali. Quelli toscani invece li adoro. Era parecchio che non ci sentivamo, almeno dal tuo funerale, e così eccomi. Il tuo funerale io e Sergio l’avevamo visto da lontano. C’erano solo carabinieri e i tuoi cinque figli, tua moglie. I politici avevano con centinaia di manifesti invitato la popolazione a partecipare al tuo funerale. Non venne nessuno. Decine di divise nere e pantaloni rigati di rosso a difesa della tua famiglia. Nessun altro. Non solo nessun cittadino si è presentato ma neanche un politico ha avuto il coraggio di presenziare. Andate, andate tutti ma poi sindaci dei paesi della zona si sono inventati convegni in mille parti d’Italia, gli assessori si sono chiusi dentro le loro case al mare, maggioranze, opposizioni, movimenti, avevano altro a che pensare che al tuo schifosissimo ultimo giorno Federì. Violante aveva persino detto: “Verrò da questo eroe sconosciuto”. Forse eri davvero troppo sconosciuto, colpa tua. Non si è visto nessuno. Io e Sergio seguivamo la processione ma non riuscivamo a guardarci in faccia, eri andato fino in fondo, sapevamo che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a fermarti. Ma quando accade, beh queste cose le sai meglio di me, anche se te lo aspetti rimani sempre sconvolto. Quand’è il momento è sempre terribile. Era talmente strano che fossimo lì che i carabinieri ci chiesero i documenti, temevano fossimo venuti a dare fastidio alla famiglia, a intimidire i tuoi figli…[…]Mi sembra incredibile, proprio io ateo incallito che scrivo una lettera a un morto. Ha ragione Serena allora quando mi dice che prima o poi diverrò un ebreo credente come mio nonno ma credo invece che il mio scrivere sia un modo per calmarmi. Non voglio godere del diritto all’oblio.
Mi è venuta voglia e lo sto facendo. Anche se ti hanno ammazzato. Ma tu Federico lo dicevi: “noi qui siamo già zombi, ci devono soltanto ricordare quando è il nostro turno, robbè ma se vado all’inferno e lì ce qualche camorra, io li fotto anche lì”.
Ti ricordi Sergio? Ci vedevamo in tre quando facevi le denunce. Ne abbiamo scritte centinaia insieme, Sergio ha trovato un lavoro da queste parti, si occupa di fumetti, la sua passione. Gli hanno minacciato il fratello, gli hanno fatto saltare in aria il garage. Sergio non ha paura ma ha deciso di vivere e questo mi rende felice. Sergio è il primo che ha scritto di te, è andato ovunque per aiutare tua moglie, per farle avere una casa, è stato dietro ai tuoi figli. E’ stato bravo Sergio. Ci vediamo poco, ma ci teniamo d’occhio. Nessuno si perde mai quando si sono battute insieme certe strade. Enzo te lo ricordi?. E’ sempre lì a Pignataro. Gli hanno spedito un colpo di kalashinikov in un pacco con dentro scritto “la tua vita è nelle nostre mani”. Non è andato via da lì. Non si è trasferito. Enzo scrive, denuncia, Alleanza nazionale l’ha allontanato, i giornali locali lo censurano, ma lui è lì in paese e nessun imprenditore può vincere un appalto senza che lui non stia lì a scoprire i meccanismi, i soldi dei clan le dinamiche che legano Pignataro a Corleone. Anche con lui non mi perdo di vista. E Matteo te lo ricordi? Matteo ora se ne va a Roma, non ce la fa più, mi dispiace che mi lascia solo ma ha ragione, fa bene e io l’ho incoraggiato ad andarsene. Ha rischiato molto, siamo andati sin sotto casa di don Vincenzo Lubrano, volevamo capire se era vero che lì v’era una struttura pronta a ospitare Provengano. Ci hanno scoperto, ma ce la siamo cavata. Siamo tutti qui. Sul fronte sud. Purtroppo.
Lo sai Federico non ricordo più quando hai deciso di combattere i clan. Li hai combattuti tutti. Non una sola famiglia. L’intera confederazione dei casalesi, ma anche quelli di Pignataro, quelli legati alla Sicilia. Nessuno ricorderà mai la tua storia Federì, il processo circa il tuo omicidio si è chiuso senza mandanti e senza esecutori. Nessuno se ne fotterà di ciò che hai speso. Perché quello che hai speso, la tua vita, in fondo non conta poi molto nella bilancia generale delle anime. Non eri giornalista, non eri magistrato, non eri un carabiniere. Eri un venditore ambulante. Troppo poco Federì, troppo poco. I telegiornali si muovono per almeno qualcosa in più, almeno un ingegnere, un assessore. Un ambulante no. E’ davvero troppo poco. Ti avessero almeno ucciso i terroristi islamici, beh allora adesso avresti una piazza nel tuo paese intitolata. Ma la camorra. Orsù roba vecchia che ormai non esiste più.
Federico Del Prete fondò un sindacato lo SNAA (Sindacato Nazionale Autonomo Ambulanti) tremila iscritti in un anno. Questi militanti dopo la sua morte sembra non esistano più, perché terrorizzati dalla camorra. Al processo hanno negato di essere iscritti al sindacato. Federico Del Prete riesce a comprendere un meccanismo molto strano e terribile: i clan usano il corpo dei vigili urbani come strumento per raccogliere il pizzo, una forma di controllo sulle ditte. Così, Federico non ce la fa più e denuncia un vigile. Il giorno prima di testimoniare al processo a carico del vigile, Federico Del Prete viene ammazzato, il 18 febbraio 2002 a Casal di Principe. Il processo sul suo assassinio si è chiuso, nel 2003, con l’archiviazione.
Ebbene sì, nessuno se lo ricorda, Federico Del Prete. Nessuno ricorda i nomi delle persone “normali” uccisi dalle mafie. Per fortuna ci sono i libri, i loro autori e l’immortale voglia di conoscere storie di eroi senza spada.